Linda Parrinello: «L’avanzata del piccolo schermo»

La direttrice editoriale della rivista Tivù traccia il percorso evolutivo di televisione e streaming, evidenziando le sfide future del settore

Di seguito un estratto dell’intervento di Linda Parrinello, direttrice editoriale della rivista Tivù, pubblicato sul numero speciale di Box Office del 15-30 gennaio (n. 1-2), realizzato in occasione dei 25 anni della rivista. Per leggere il testo integrale, scaricare la versione digitale dall’app di Box Office su Google Play e App Store, o abbonarsi direttamente alla versione cartacea della rivista.

«C’è stato un tempo non lontano in cui la televisione, almeno quella scripted, ovvero quella degli sceneggiati prima e della fiction poi, ha inseguito il cinema», scrive sulla rivista Box Office Linda Parrinello, direttrice editoriale della rivista Tivù. «Se di una produzione si voleva dire che era di valore si scomodava automaticamente l’assioma “ha una qualità cinematografica”. C’erano (e ce ne sono ancora oggi, anche se – per fortuna – sempre meno) registi, attori e attrici che si vantavano di non voler lavorare per il piccolo schermo, al confronto del grande schermo che invece erano ben lieti di bazzicare. Come se si trattasse di una mera questione di misure… D’allora ne è passata di acqua sotto i ponti, e il tempo ha reso giustizia di una visione elitaria che non ha mai fatto bene al mercato cinematografico del nostro Paese. Al contrario invece della televisione, che è nata e si è sempre alimentata della popolarità, appunto del suo essere generalista, facendone la sua forza. I gusti e le abitudini di consumo degli italiani hanno poi fatto il resto: non è un segreto per nessuno che molti film dell’ultimo decennio siano stati scritti e prodotti più per la lucrosa messa in onda televisiva (con annesse cesure pensate appositamente per l’inserimento dei break) anziché per il passaggio in sala. Da qui la televisionizzazione delle storie destinate alle sale…

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Una sorta di allarmante legge del contrappasso che – a dire il vero – non contraddistingue solo certa cinematografia nostrana. Ovviamente stiamo parlando di due mondi paralleli, sovrapponibili solo in parte, visto che la televisione è anche intrattenimento (inteso come specifico genere produttivo), così come informazione (al cinema invece i cinegiornali sono spariti da tempo) per non dire sport (competizioni e informazione sportiva). Due mondi paralleli che hanno cominciato dal 2003, con l’arrivo di Sky in Italia, a modificare impercettibilmente le proprie orbite, fino ad arrivare al 2015 con il lancio di Netflix, quando hanno accelerato a dismisura la loro rotazione intorno al proprio asse audiovisivo generando forze di attrazione e repulsione, in termini finanziari, distributivi ed editoriali impensabili fino a pochi anni prima. Il fatto che gli italiani, che va detto hanno una delle offerte televisive free tra le più ricche d’Europa se non del mondo, abbiano accettato di dover pagare per vedere un contenuto televisivo ha coinciso con una sorta di evoluzione darwiniana, che ha avvicinato ancora di più il piccolo al grande schermo. E anche se siamo il Paese che ha ancora meno abbonamenti alla pay Tv rispetto al resto d’Europa, di fatto il salto quantico c’è stato e la pandemia l’ha accelerato. Gli analisti sostengono che gli italiani non cumuleranno la media di 4-5 abbonamenti a servizi on demand come succede altrove, perché non è solo una questione di evidente indisponibilità economica, ma anche di tempo: il time budget degli spettatori è sempre più risicato e non è possibile pensare che – per quanto i device mobile consentano di ottimizzare l’impiego dei tempi morti nell’arco della giornata, soprattutto da parte delle giova- ni generazioni – il pubblico sia disposto a rinunciare ad oltranza a porzioni della propria vita personale e familiare per impiegarla a seguire una serie, un film o un documentario su una qualsiasi piattaforma. Senza dire che c’è piattaforma e piattaforma.

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A oggi solo Disney+, forte della storia del brand e delle esperienze delle altre piattaforme che l’hanno preceduta, è nata con una sua specifica personalità, le altre sono – com’è normale che sia in questa fase – dei perenni “lavori in corso”. Si parte con un genere, serie e film, si allarga al documentario e poi all’animazione, si passa dall’intrattenimento e infine dallo sport, si inseriscono dei canali tematici di altri operatori. Altro caso è Discovery+, che punta la barra decisamente sul genere core del factual, puro o meno, come sull’approfondimento e l’intrattenimento, escludendo di giocarsela con le altre piattaforme sull’onerosissimo e affollatissimo terreno dello scripted. E poi c’è l’on demand free, quello dei singoli broadcaster che si foraggiano attraverso la raccolta adv, e le forme ibride pay-light. Tutto questo per dire che l’offerta è quanto mai affollata, ed è difficile per uno spettatore medio intercettarne le novità e capire quanto vadano incontro ai suoi gusti. Ecco perché il discovering dei contenuti offerti dai singoli ott è la sfida da vincere non nei prossimi anni, bensì nei prossimi mesi. In questo gli aggregatori come Sky e Tim Vision si giocano…».

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