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«La Terra sarebbe un posto migliore se ai vertici, in politica e nelle aziende, ci fossero più donne». A rilasciare di recente questa non certo originalissima dichiarazione è stata Sara Blakely, fondatrice di Spanx, un’azienda di Atlanta che produce guaine e coulotte modellanti – indossate dalle più famose star di Hollywood – che l’hanno resa multimilionaria. Certo, potrebbe essere anche un giudizio interessato, visti gli articoli trattati dalla signora in questione, se non fosse che a farle da eco hanno contribuito in queste settimane i risultati di diversi studi. Il primo tra tutti Women, work and the economy, a cura del Fondo monetario internazionale, a margine del quale il suo direttore, Christine Lagarde, ha annotato che la diseguaglianza di trattamento tra i due sessi (ovviamente a discapito delle donne) «si traduce in un rallentamento della crescita economica che arriva fino al 27% del pil pro capite in alcune nazioni». C’è di che riflettere alla luce del fatto che il tasso di occupazione femminile in Italia si attesta intorno al 47% (con pesanti differenze nelle diverse aree della Penisola) contro il 65% di quella maschile, con un divario che si amplifica anche sotto il profilo retributivo e professionale (dalle minori possibilità d’accesso al lavoro a quelle di poter fare carriera). Il punto di vista non è solo internazionale, se anche il 47° rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese insiste sulla valenza dell’economia femminile. Contro un 4,4% di aziende che nel 2012 hanno chiuso a causa della crisi, ben 5 mila hanno aperto i battenti avendo al loro vertice una donna. Crescono anche le cooperative e le società di capitali (+ 4,2%) al femminile. E anche la partecipazione delle donne come libere professioniste al mercato del lavoro ha registrato un incremento del 3,7% tra il 2007 e il 2012. Anche perché le donne, riporta il rapporto, hanno «capacità di resistenza ma anche di innovazione, di adattamento difensivo e persino di rilancio e cambiamento». Non è un caso, quindi, che la Lagarde si sia spinta a lanciare un vero e proprio monito agli Stati affinché approntino politiche fiscali meno punitive, tassando il reddito individuale anziché quello familiare (per favorire di fatto la convenienza fiscale del reddito femminile) e collegando i benefici del welfare alla partecipazione al mondo del lavoro o a programmi di formazione attiva (unitamente ai programmi di congedo parentale). Senza dimenticare il mondo dell’impresa: «Se il numero di donne occupate fosse uguale a quello degli uomini, le aziende avrebbero un più vasto bacino di talenti e potrebbero accrescere ulteriormente la loro creatività, la loro innovazione e produttività» sfruttando di più e meglio a proprio vantaggio le prerogative dell’altra metà del cielo. Quali? Al di là delle qualità specifiche delle singole professionalità e personalità, quelle individuate da una ricerca dell’Università della Pennsylvania e pubblicati di recente negli Atti della National Academy of Sciences: le donne hanno migliori collegamenti tra la parte destra e sinistra del cervello, mentre negli uomini a funzionare meglio sono le connessioni tra la parte anteriore e posteriore. Ciò vuol dire che le donne lavorano meglio di intuito e logica, sono multitasking insomma, mentre gli uomini sono più bravi nei singoli compiti complessi. Possibile che non si riesca ancora a far tesoro di cotanta straordinaria diversità?
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