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Probabilmente l’estate del 2009 passerà alla storia (?) come un periodo in cui opinionisti, esperti & co. si sono affannati a dare consigli – peraltro non richiesti – alla Rai. Consigli che, da parte sua, viale Mazzini si guarda sempre dal seguire visto che ha già consiglieri ben più ingombranti: i partiti, poi il Tesoro, quindi il governo, ergo Silvio Berlusconi, e (per certi versi) il Parlamento. Detto ciò, l’affaire TivùSat e le elucubrazioni strategiche ed economiche che si è portato dietro l’addio di RaiSat (e via via di parte dei canali generalisti) alla piattaforma Sky avrebbero potuto essere risolti a monte da un unico assunto: all’estero i servizi pubblici non si sognano di scendere dalle piattaforme satellitari, siano esse pay o free, perché devono poter raggiungere il maggior numero di cittadini che pagano le tasse. Perché il canone è una tassa, di possesso, ma sempre una tassa rimane, impropriamente definita abbonamento. Che circa il 30% delle famiglie si guarda bene dal pagare provocando un ammanco di circa 500mln di euro. Non è poco, soprattutto in un momento in cui si dibatte sull’evoluzione dei modelli di business mediali nell’era digitale e ci si arrovella su dove andare a reperire le risorse per finanziare tale rivoluzione, a fronte di un mercato pubblicitario sempre più asfittico. Anche di questo si è parlato al World Economic Forum che si è tenuto durante il RomaFictionFest. In quell’occasione, diversi relatori – dibattendo sugli sviluppi dell’audiovisivo nel terzo millennio – hanno fornito alcuni interessanti spunti di riflessione sul presente e sul futuro del servizio pubblico, che potrebbero tornare utili a viale Mazzini. Nel caso in cui – non si sa mai – decidesse di ascoltare, di tanto in tanto, qualche suggerimento…Un interessante postulato è stato messo a fuoco da sir Martin Sorrell, gran capo di Wpp, il più importante centro media al mondo. Il quale ha sostenuto che si insiste troppo poco sull’importanza dell’apporto economico e strategico costituito dai canoni di abbonamento ai vari servizi pubblici: in Uk Bbc vi ricava circa 3,5mld di sterline, alla Rai arrivano circa 1,5mld di euro (quasi altrettanti ne frutta la raccolta pubblicitaria). Si tratta di una mole di risorse che, ha sottolineato Sorrell, non può essere spesa indistintamente per stare sul mercato, quanto per sostenere e alimentare una prerogativa che i servizi pubblici si sono guadagnati in anni di storia (55 per la Rai) ed è la credibilità di cui godono presso i cittadini-telespettatori. Credibilità uguale prestigio: un bene prezioso non disponibile sul mercato che diventa ancora più pregiato e strategico in un’epoca in cui tutti aspirano diffusamente a informare e intrattenere tutti attraverso il web. Un esempio su quanto possa “pesare” il prestigio di un servizio pubblico? Da fine luglio Bbc fornisce gratuitamente contenuti audiovisivi ai siti di quattro importanti quotidiani britannici come Daily Mail, Daily Telegraph, Guardian e Independent. E la Rai? Va detto che, malgrado tutto, da noi – non si sa ancora per quanto – la Televisione è la Rai. Ma viale Mazzini cosa fa per meritarsi questa rendita di posizione? In un’epoca in cui almeno il 30% del valore commerciale di un’azienda risiede nel brand, si può veramente affermare che esiste oggi uno stile Rai nell’informazione, come nelle fiction, negli approfondimenti, nei programmi di intrattenimento? Nel ’54 (proprio lo stesso anno in cui nasceva la Rai…) in un’intervista al Time, Ernest Hemingway ebbe a dire: «La giusta maniera di fare, lo stile, non è un concetto vano. È semplicemente il modo di fare ciò che deve essere fatto. Che poi il modo giusto, a cosa compiuta, risulti anche bello è un fatto accidentale». Ecco, alla soglia del rutilante sviluppo dell’audiovisivo che si profila per il terzo millennio, in particolar modo per i servizi pubblici, non sarebbe il caso che qualche dirigente in più di viale Mazzini si chiedesse se stia facendo nel modo giusto le cose che andrebbero fatte?
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