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Risulta straordinario come da una parte il mercato televisivo italiano appaia estremamente conservatore e conservativo, e dall’altra abbracci le tecnologie che lo attraversano. Come dimenticare l’exploit tutto nostro nella – poi abortita – tv offerta via videofonini? E come non ricordare che l’offerta pay via smart card su digitale terrestre vanta una primogenitura tutta tricolore? Si aggiunga il ripetuto innamoramento della popolazione del Belpaese per tv Flat e Hd, per Blu Ray e 3D, e si avrà un profilo alquanto fluido dell’attuale scenario per poter abbozzare un confronto tra l’intrattenimento programmato dalle nostre tv e le potenzialità (tecnologiche) delle offerte dei broadcaster e delle società di elettronica. Gli italiani – almeno ampie fasce di loro – sono un popolo di santi, di poeti e di technology addicted: basti considerare la velocità di penetrazione di iPhone e iPad, per rendersi conto della nostra ricettività verso il nuovo. Non necessariamente a buon mercato. Ecco perché il lancio del servizio Premium Net Tv di Mediaset, con tutti i limiti che elenchiamo nell’articolo a pag. 48, rappresenta un’interessante novità, non tanto e non solo per il servizio in sé, quanto per le conseguenze che – alla lunga – esso potrà ingenerare nelle abitudini di consumo del pubblico. Perché internet diventa – anche con il lancio di Sky Anytime+ entro fine 2011 – una piattaforma complementare, ma via via alternativa e sostitutiva alla tv tradizionale, sia essa via digitale terrestre piuttosto che su satellite. Certo, stiamo ancora parlando solo di video on demand, e la cablatura della rete è quella che è, ma l’alfabetizzazione tecnologica che comunque il vod comporta e il fatto che nessun governo al mondo – alla lunga – potrà permettersi di non colmare il digital divide che separa il nostro Paese dalla media di digitalizzazione internazionale (pena l’arretratezza economica e culturale), fanno ben sperare. Di contro, se si guarda a cosa sta dentro il piccolo schermo, l’offerta che attualmente propone in modo lineare appare vecchia, a tratti provinciale. Siamo ancora troppo concentrati sulla ricerca di programmi in grado di attirare il maggior numero di spettatori, indistintamente dal target. E questo alimenta la sopravvivenza di format che hanno ormai dai 15 agli oltre 25 anni di attività. Tornano imperterriti come se intorno alla tv il mondo non fosse cambiato. Eppure molto è successo in questi anni. Per esempio che Paesi insospettabili – vedi Olanda, Svezia e, da ultimo, Israele – diventassero la punta di diamante dell’industria dei format. Ed è successo che mentre i nostri direttori di rete si intestardivano su show troppo costosi perché ancora concepiti in studio, costruiti intorno a un conduttore-guru e con durate interminabili (soprattutto in prime time), le tendenze internazionali imponessero programmi low budget senza studio, con conduttori defilati quando non assenti e a blocchi di durata ben definiti. Ecco, i contenuti della tv italiana devono entrare definitivamente nel 21mo secolo, se vogliono stare al passo con la tecnologia che li supporta, magari anticipandola e sperimentando declinazioni da destinare a una crossmedialità più ampia, proprio per andare a intercettare quel pubblico che starebbe tendenzialmente abbandonandola per altri lidi. Perché, anche a voler guardare da vicino le ultime novità tecnologiche emerse al recente Ces di Las Vegas, dove i televisori connessi a internet hanno costituito il fiore all’occhiello delle grandi multinazionali dell’elettronica di consumo, la televisione ha avuto ribadita la sua centralità rispetto al resto dei contenuti fruibili. Alle reti l’arduo compito di rendere al più presto il messaggio all’altezza del mezzo.
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