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La televisione cambia più di quanto cambi la platea televisiva, meno della pubblicità e del web, ma certamente più degli altri mezzi. Probabilmente, il fatto che i palinsesti siano frequentati spesso da programmi classici (e proprio di questo abbiamo parlato col protagonista della nostra copertina, Carlo Conti) e vecchi, a volte di qualche di decenni, può farla apparire perennemente uguale a se stessa. Per curiosità, sono andata a spulciare – scegliendoli a caso – i numeri di novembre di Tivù di alcuni anni fa, dove si parlava di come stesse maturando l’assalto alle audience generaliste da parte dei nuovi brand nativi digitali (2015), di deroghe agli obblighi di investimento in opere europee (2016), delle scelte dei servizi pubblici Ue in materia di canone (2008), della creatività applicata alla promozione televisiva (2012), di equo compenso sulle repliche dei programmi (2011)… e potrei continuare a oltranza, lungo i 17 anni che ci separano dalla nascita della nostra testata. Tutto questo per dire che nulla, ma proprio nulla, faceva presagire allora che all’alba del 2019 ci saremmo interrogati – così come facciamo su questo numero – sulla necessità di un adeguamento del tax credit (quella dei contenuti tv è stata per anni ben lontana dall’essere considerata un’industria), su un modello di business in crescente ascesa come quello delle piattaforme Avod (Advertising video on demand), su come gli Ott stiano stravolgendo (e potranno ancora di più stravolgere) gli equilibri della raccolta pubblicitaria… A paragonare gli argomenti, sembra di essere in un altro secolo su un altro pianeta, e invece è la “solita” tv, che si è espansa, dilatata, evoluta, a tratti stravolta. Se qualcuno, fino a un paio d’anni or sono, avesse ipotizzato che Mediaset e Sky si sarebbero messe a fare business insieme e che sempre il Biscione avrebbe cominciato a produrre fiction con Netflix, o che proprio i gruppi nativi analogici sarebbero diventati i più importanti operatori dell’offerta di contenuti video online, e che la serialità italiana avrebbe conquistato ampio interesse a livello internazionale, gli avremmo dato del matto. Eppure è così, e con un po’ di coraggio e di fantasia in più, il futuro prossimo potrebbe essere addirittura più articolato e multiforme. Perché se Sky riuscirà nella sua non facile impresa di diventare a tutti gli effetti anche una telco, se RaiPlay dovesse trasformarsi in tutto o in parte quello che si augura l’ad Fabrizio Salini, se Mediaset dovesse veramente arrivare a rappresentare la capofila di un gruppo trasversale tra broadcaster europei, tra meno di due anni ci ritroveremmo con un mercato dai connotati completamente stravolti. Con un’Italia della televisione ancora più trasversale di quanto non sia oggi. Quel che manca forse ancora all’appello è una maggiore verticalizzazione dei contenuti: ovvero, progetti pensati sempre più non solo a misura di canale, ma anche di piattaforma di fruizione. Non v’è dubbio che la creatività tricolore sia adeguata alla sfida, serve solo che abbia la possibilità di misurarsi su ogni variabile dettata oggi dal digitale: dall’on demand alla social tv. E di questo genere di “esercizi” si vede ancora, purtroppo, troppo poco.
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