In Italia si combatte la ricchezza
Si fa sempre più insistente sui giornali, nei salotti e nelle aziende del nostro Paese il refrain che in Italia si combatta più la ricchezza che la povertà. Affermazione curiosa – che peraltro anche noi abbiamo (nel nostro piccolo) condiviso negli anni in questo spazio –, e tutt’altro che provocatoria. Il perché è presto detto, e lo facciamo partendo dalla stringente attualità. Nella recente legge di Stabilità, per esempio, il punto di vista delle aziende in materia di lavoro, fiscalità e sviluppo non solo è stato del tutto disatteso, ma risulta addirittura non pervenuto. Nel senso che i due fronti della coalizione di governo – M5s in primis e Pd in secundis – si sono guardati bene dal rischio di essere associati a qualsivoglia richiesta, riflessione e istanza del mondo imprenditoriale. Sia mai? Con un elettorato che si è ingrossato a forza di 80 euro in busta paga, reddito di cittadinanza e quota 100, come pensare di ascoltare le valutazioni di chi il lavoro nei fatti lo crea? Eppure, è così. Per intenderci, va bene aiutare chi è in difficoltà, ma lo è altrettanto sostenere chi creando ricchezza (cioè fatturati e, quindi, profitti) dà lavoro; lavoro che si traduce non solo in stipendi ma anche in dignità. Il cui valore in sé, a mio modo di vedere, non è né quantificabile né monetizzabile.
La verità è che da noi fa ribrezzo proporre l’equazione: aziende floride, Paese ricco. Perché gli imprenditori sono ancora visti, ahimè!, come i padroni delle ferriere. Eppure, anche quando si avesse in odio la categoria per qualche più o meno ragionevole ragione, non aver tenuto da conto il benessere delle aziende sane è un lusso che stiamo pagando molto caro. Secondo infatti un’inchiesta del
Dimenticavo: Henry David Thoreau sosteneva che «le cose non cambiano; cambiamo». Ebbene, avendo fiducia per primi nella forza del cambiamento, come vedrete abbiamo deciso di cambiare, rinnovando la veste grafica della nostra rivista, per renderla più leggibile e lineare.
Buona lettura.
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