Massimo Iosa Ghini: “La bellezza è una necessità”
Intervista a uno degli architetti più eclettici del panorama italiano e internazionale

Per Massimo Iosa Ghini, architetto e designer tra i più eclettici del panorama italiano e internazionale, la bellezza è “una necessità”.
Vanta una carriera di oltre 30 anni ed è Ambasciatore del design italiano nel mondo. Ha iniziato la carriera negli anni ’80, fondando un movimento, il Bolidismo, considerato tra le avanguardie del design italiano, e partecipato a Memphis, fondato dal maestro Ettore Sottsass.
Nel 1990 fonda Iosa Ghini Associati con sedi a Bologna e a Milano, dove lavorano architetti, ingegneri e designer di varie nazionalità. Nel corso del tempo ha acquisito una particolare competenza nello sviluppo di progetti per grandi gruppi e developer che operano internazionalmente.
Progetta spazi architettonici commerciali e museali, aree e strutture dedicate al trasporto pubblico, nonché il design di catene di negozi realizzate in tutto il mondo.
Tra i progetti principali più recenti ha firmato i Ferrari Store in Europa, Stati Uniti e Asia; progetto residenziale polifunzionale a Budapest, vari hotel in Europa (tra cui a Budapest, Nizza e Bari), nonché le aree aeroportuali della compagnia aerea Alitalia.
E ancora, la stazione metropolitana di Kröpcke di Hannover, Germania; il centro commerciale The Collection di Miami, USA; il Museo Galleria Ferrari di Maranello, Modena; la sede della Seat Pagine Gialle, Torino; e per finire la Casa Museo Giorgio Morandi, il progetto dell’infrastruttura di trasporto Marconi Express a Bologna, e l’IBM Software Executive Briefing Center, Roma.
Nel modo dell’arredobagno ha firmato con successo importanti collezioni per Duravit, Dornbracht, Hoesch, Hatria, Teuco, Milldue, Devon&Devon (Gruppo Italcer), Aquaspecial, GSG Ceramic Design. Ed è proprio la sua visione sul mondo del progetto il cuore della nostra intervista, che inizia partendo dalle origini…
Partiamo dalle origini: nel 1986 fonda quello che sarà considerato l’ultimo movimento del Novecento, il Bolidismo. Come è nato e perché?
È nato da conversazioni all’Università di Firenze, attorno alle cattedre di Natalini e Buti, mi affascinava anche la visione di Savioli, ma il vero passaggio è stato il trasferimento di buona parte del gruppo a Milano che all’epoca aveva il Booster della creatività con Branzi, Sottsass e Mendini.
Mentre dell’esperienza con Memphis?
Ho conosciuto Ettore (Sottsass, ndr) che mi ha inserito nel gruppo, per me erano conferme che c’era una strada creativa alla professione di architetto e che il nostro mestiere non è solo burocracy (che c’è), ma anche sapere immaginare il futuro.
Rispetto a quegli anni, oggi il design sembra essere “più prodotto e meno arte”. Perché secondo lei?
Sono d’accordo con Massimo Cacciari, questo ha creato divisioni, delineato nuovi limiti. Sarà necessario un lungo lavoro per rivitalizzare la società ma p proprio adesso che occorre immaginazione (io la chiamo immaginazione concreta) per generare il meglio.
Abbiamo vissuto un anno molto intenso … come lo ha vissuto e cosa ha imparato?
Ognuno di noi ha abbracciato mentalmente uno scenario, i più sono convinti che si tornerà come prima, ma ovviamente non sarà così, un processo è in atto.
Tutto ciò che “pesante” materiale sa di superato, il design circolare assume la riduzione planetaria del materiale trattato.
Dobbiamo essere armonici, sfruttare tutto ciò che la natura ci propone, andare a vela anziché a motore, ma non è less is more, che è un vecchio slogan del secolo scorso, ma una meno materia e più pensiero.
Come il Covid impatterà sulla configurazione urbana?
È facile prevedere che ci sarà una omogeneizzazione della qualità urbana, si camminerà di più (la città dei 15 minuti), una città multicentrica dove il verde non sarà più lasciato al caso, il biophilic design diventerà presto parte dell’aspetto normativo di ogni amministrazione. I trasporti intelligenti cambieranno il volto delle città, sarà un lusso avere una vettura propria.
Ha dichiarato che la parola d’ordine sarà “rarefazione” anche se non si arriverà ad abbandonare i centri urbani perché “abbiamo la necessità di relazionarci, anche fisicamente”. Come lo vede il futuro prossimo?
Il futuro lo stiamo già vivendo anche se nella parte sua peggiore. Il covid ci ha insegnato a considerare noi e il contesto come una risorsa limitata, e quindi anche lo spazio che abbiamo capito quanto è prezioso e quanto è prezioso relazionarci.
Questo non ci farà abbandonare le città che sono luoghi di civiltà e di relazione, di crescita la certamente la ricetta urbana cambia, ci sarà bisogno di più spazio a partire dagli appartamenti che le persone vorranno più grandi e vivibili, dotati di zone esterne, è una sfida agli architetti già lanciata da Covid.
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