Aspettando il grande botto
Avete presente il film Matrix quando Neo combatte con gli agenti-macchine e tutto sembra muoversi in slow motion: le persone, i vetri in frantumi, gli stessi proiettili? E ricordate poi come alla fine l’azione prenda di colpo un’accelerazione improvvisa e tutto cada rovinosamente? Ebbene, devo ammetterlo, in queste settimane mi sento un po’ così: come se il peggio dovesse ancora venire. «Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie», si potrebbe dire con un accento poetico di stampo ungarettiano, nel tentativo di rappresentare quel senso di precarietà che caratterizza i tempi che corrono. Questo perché siamo in attesa che qualcosa finisca – la cassa integrazione, i fatturati delle aziende ai minimi storici, il rinvio del pagamento delle tasse, l’attesa dei soldi del Recovery Found, la stessa pandemia –, ben sapendo che quello che arriverà dopo potrebbe avere un risvolto peggiore dell’attuale. Perché la ripresa sarà lunga e dolorosa, perché quel «nulla sarà più come prima» che tanto si sente in giro, potrebbe non avere quell’accezione ottimistica che in tanti si sforzano di volergli attribuire.
Quel che so è che l’Italia ha bisogno come l’aria di risorse e liquidità da spendere e investire. E che, visto che i soldi europei tarderanno ad arrivare, dobbiamo essere capaci di reperirli altrove. Dove? Per esempio, nei forzieri delle nostre banche. Affinché gli italiani, notoriamente popolo di santi, poeti, naviganti e risparmiatori, si trasformino in una coraggiosa platea di investitori.
Nel 2018 si contavano oltre 1.400 miliardi di risparmi immobilizzati nei conti correnti e gli esperti parlano di almeno 500-750 miliardi di risparmio che in teoria potrebbero dar man forte alle risorse in arrivo dall’Europa. Ma perché ciò sia possibile bisogna generare nei risparmiatori una ventata di fiducia nel Paese. Occorre alimentare la convinzione che se non si rischia – il giusto – in prima persona, se non ci si mette del proprio, se non si butta il cuore oltre l’ostacolo, la nostra economia sarà esposta alla sudamericanizzazione: ammalata cronica di fragilità e facilmente depredabile. Siamo sicuri di volere questo per l’Italia? Mi piacerebbe che la politica smettesse i panni di quest’eterna opera dei pupi in cui tutti sono l’un contro l’altro armato, e cominciasse a coltivare la credibilità e l’autorevolezza dello Stato: dove ogni cittadino – in base alle sue capacità e possibilità, nonché liberamente – possa dare il suo contributo per costruire e rendere stabile la comunità in cui lui stesso vive e dove cresceranno i suoi figli. Bisogna metterci ognuno a suo modo del proprio, il che vale non solo per le risorse finanziare ma anche per le energie creative, affinché questo meraviglioso Paese non si trasformi presto nell’ombra di quello che è stato.
Vito Sinopoli
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