Rivediamo i fondamentali
Con la minaccia di un’eventuale recrudescenza della pandemia di coronavirus in autunno, viene difficile prevedere cosa nello specifico sarebbe più giusto fare per evitare il peggio entro la fine dell’anno. Anche se è difficile non dare ragione a chi chiede e pretende dal governo di essere più lungimirante, di darsi un progetto di sviluppo per questo Paese e farlo uscire da uno stato di precarietà e fragilità che sta consumando il tessuto economico. Quindi, al di là delle cose che andrebbero fatte in generale, e mettendo da parte (me lo si lasci dire) la pochezza del panorama politico italiano, mi sorprendo a chiedermi come ognuno a livello individuale potrebbe, anzi dovrebbe, impegnarsi per andare oltre le contingenze e le difficoltà.
Credo che in un panorama economico in cui centinaia di migliaia di piccole e medie imprese arrancano, dove tante hanno già chiuso e altre più grandi pensano di ridimensionarsi – non a caso si parla di un buco di oltre un milione e mezzo di posti di lavoro –, occorra cominciare a rivedere i fondamentali. Come quando, in un suo celeberrimo discorso pronunciato nel giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, John Fitzgerald Kennedy ebbe a dire «Non chiederti cosa può fare il tuo Paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese».
Ebbene, proprio in questo spirito penso che qualsiasi imprenditore e manager debba chiedersi, oggi più che mai, cosa fare di buono per la propria azienda che vada anche a beneficio diretto del Paese. È sopraggiunta l’era della responsabilità, a cui nessuno può e deve sottrarsi. Inclusi i singoli lavoratori, dipendenti o autonomi che siano. È tempo di chiedersi sempre meno cosa la tua azienda possa fare per te, e cominciare a chiedersi cosa ciascuno di noi possa fare di meglio per la propria azienda. Il che va oltre gli schemi burocratici dei contratti di lavoro. Perché possono quantificare i tempi e i ruoli di un lavoratore, non il come, ovvero la qualità della prestazione, che è legata alla persona, alle sue capacità creative e di adattamento, al suo saper essere resiliente o intransigente, alla sua voglia di mettersi in gioco o meno, all’amore che nutre per il suo lavoro. Credo che, in un’epoca in cui i nostri politici hanno fatto dell’incompetenza una ragione di vanto, il mondo del lavoro – dai dirigenti ai dipendenti – possa (anzi debba) dare un segnale di maturità, di consapevolezza, riconoscendo che davanti a un tracollo così grave e generalizzato, il Paese – così come le aziende – potrà risollevarsi solo col contributo di tutti. Perché quel che si rompe oggi, farà fatica, molta fatica, impiegando lunghi anni, a essere ricomposto.
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